Il blog di Riccardo C.
Parole, parole, parole... e ogni tanto, forse, qualche pensiero
31 dicembre 2004
22 dicembre 2004
Racconti dal treno: Racconto di settembre
Ieri mi è arrivato l’ultimo numero di “Amicotreno”. Amico? Questa mattina, 45 minuti di ritardo, nessun annuncio, riscaldamento rotto (alla rovescia: il vagone è un forno). Ho tutto il tempo per allegare un vecchio racconto, che avevo scritto l’anno scorso e che non è mai stato pubblicato. E’ un po’ a’ la Bradbury, ma non mi sembra proprio pessimo.
Racconto di settembre
di Riccardo Cassinis
Un grande sole rosso stava sospeso sul rosso deserto di Sera. Sembrava immobile, ma piano piano le ombre si allungavano, là tutt’intorno alla casetta dove viveva il vecchio Urk.
Finalmente, il lembo inferiore del grande disco toccò l’orizzonte, e un alito di frescura fece fremere la pianura infuocata. Fra poco, il freddo sarebbe stato insopportabile. Nel cielo ormai scuro brillavano le prime stelle, e il disco azzurrognolo di Skirt si stagliava nettissimo.
Non era mai stato su Skirt, il vecchio Urk, e non lo rimpiangeva. Di Skirt si raccontavano tante leggende, ma Urk credeva di saperne un po’ più di tutti gli altri, perché lui ci aveva parlato, con gli abitanti di Skirt. Aveva parlato con quelli che erano arrivati con la prima spedizione. E non era un bel ricordo, anzi, tutto il contrario. Arroganti come quelli, non ne aveva mai visti. E poi, quello che era successo dopo…
Erano arrivati tantissimo tempo prima, con un sistema piuttosto rudimentale (Urk sorrise fra sé e sé ricordando l’ingenuità del meccanismo per attutire la caduta), ed era stata una vera fortuna che avessero scelto la zona deserta dove viveva Urk, altrimenti, se fossero scesi su una grande città, avrebbero bruciato tutto ancor prima di arrivare, con quelle gran fiammate che uscivano dal loro trabiccolo.
Quando, un po’ a gesti e un po’ con dei disegni, erano riusciti ad intendersi, Urk aveva saputo che questi buffi esseri erano venuti in gran segreto: quasi nessuno su Skirt sapeva della loro partenza, perché se la missione fosse fallita non volevano che il prestigio della loro gente ne fosse intaccato. Infatti erano orgogliosissimi: dicevano di avere inventato le cose migliori del mondo, dal sistema di governo alla tecnologia, al modo di gestire l’economia e la finanza a quello di vivere il più a lungo possibile. Però Urk non ci aveva messo molto a capire che quello che interessava a questi strani esseri non era tanto quello che veramente facevano, ma quello che dicevano di aver fatto, e che le due cose non sempre coincidevano.
Un soffio di vento gelido spazzò la spianata davanti alla casa di Urk. Rabbrividendo, egli raccolse il mantello e si accinse a rientrare. Non era proprio il caso, alla sua età, di sfidare il freddo delle buie notti seriane: anche se era solo e ogni tanto si sentiva un po’ stanco, Urk sapeva che la sua ora non era ancora arrivata e l’imperativo categorico della sopravvivenza in lui era ancora fortissimo. E poi aveva ancora una missione da compiere.
Mentre disponeva le cose per la cena, Urk continuò a seguire il filo dei suoi pensieri, e a ricordare le lunghe spiegazioni che aveva cercato di fargli il capo della prima spedizione. Gli veniva da sorridere, pensando come questo giovane esploratore idealista e ingenuo avesse creduto alle favole che, evidentemente, gli avevano raccontato: ci credeva a tal punto da non poter più concepire che, da qualche parte dell’universo, potessero esistere soluzioni alternative a quelli che in fondo in fondo erano i problemi di ogni essere vivente: nutrirsi, riprodursi, e cercare di fare in modo che i figli stessero un po’ meglio dei genitori.
Eppure Urk ne era la dimostrazione più ovvia: era felice, prima dell’arrivo della spedizione, come lo erano tutti gli abitanti di Sera. Certo, anche loro avevano i loro guai, chi prima e chi poi, perché erano esseri viventi. Ma nessuno su Sera soffriva la fame o la sete, e il meccanismo di compensazione faceva sì che la ricchezza (ammesso che si potesse chiamarla così: questa era una parola che gli aveva insegnato il capo della spedizione) non potesse essere distribuita in maniera troppo ineguale. Quando, tanti anni prima, quell’invasato che si faceva chiamare Krst si era messo a strillare che i mercanti erano tutti farabutti, la gente di Sera ci aveva fatto un pensierino, e aveva concluso che poteva anche darsi che avesse ragione. E si era regolata di conseguenza, introducendo quel concetto di equo guadagno che era considerato uno dei caposaldi della costituzione di Sera, e di cui tutti i giuristi seriani andavano così orgogliosi.
Urk ora era in salotto, e la sua mente continuava a rivangare il ricordo della prima spedizione. Erano arrivati convinti che non avrebbero trovato nessuno: gli scienziati di Skirt credevano che Sera fosse un pianeta disabitato… eppure, Urk lo aveva capito subito, quella cosa che pendeva dalla cintura di ognuno di loro non avrebbe avuto senso, se veramente Sera fosse stato disabitato.
Urk schioccò lievemente le dita, e la stanza divenne buia. Poi, dalla parete si staccarono le figure di una donna e di una ragazza: sorridevano radiose in una scena di pace domestica così dolce che Urk, non ostante fossero passati tanti anni, sentì un groppo terribile attanagliargli la gola. Erano sua moglie e sua figlia, quelle figure, riprese qualche giorno prima della tragedia. Ecco, apparivano anche gli abitanti di Skirt, e sullo sfondo il loro strano veicolo, e dalle loro cinture pendevano quegli strani aggeggi…
Adesso Urk vedeva tutta la famiglia attorno al desco, con quegli strani ospiti che non si decidevano ad assaggiare il loro cibo… ma il più giovane di loro guardava i grandi occhi di sua figlia, e i due parlottavano fitto fitto sottovoce.
In tanti anni, Urk aveva guardato e riguardato quegli ologrammi, cercando di capire, di farsi una ragione. Ma non ci era mai riuscito. Vedeva i due parlare, c’era evidentemente una simpatia fra di loro. Lui chiaramente la prendeva in giro per i suoi occhi smisuratamente grandi (un effetto dell’atmosfera rarefatta di Sera), lei si schermiva. Poi di nuovo parlavano, un po’ a gesti, un po’ con quelle poche parole che l’uno aveva potuto imprare dall’altra. A un certo punto, era chiaro, lei gli stava spiegando qualcosa della loro organizzazione: aveva preso il Libro delle Leggi e gli indicava una pagina.
E d’improvviso lui si era irrigidito, aveva spalancato gli occhi, poi era corso dal suo capo e gli aveva mormorato qualcosa all’orecchio. Cosa, non si capiva proprio. Ma l’effetto era stato lo stesso: ancora occhi spalancati, poi una corsa verso l’astronave. I sensori di attività elettrica della casa di Urk (un’altra cosa indispensabile, con quello strano clima) avevano registrato una comunicazione in corso fra l’astronave e Skirt. Era stata una cosa lunga: più lunga di quanto i lunghi tempi di trasmissione richiedessero. E quando alla fine il capo della spedizione era tornato, il suo volto era grave.
“Il nostro presidente e il suo staff hanno determinato che le vostre idee sul governo e sull’economia sono contrarie alla libertà, che è il bene supremo a cui ogni essere vivente deve aspirare” aveva detto, guardandolo fisso negli occhi. “Noi non possiamo tollerare il vostro sistema di governo. Non ci interessa se ve lo siete scelto voi. Non ci interessa se ne siete soddisfatti. Non è compatibile con i nostri standard. Temiamo che, se fosse reso noto, potrebbe costituire una minaccia per il nostro, che funziona egregiamente da ben duecento anni. Il nostro governo ci impone di rompere ogni relazione con voi, finché non avremo riorganizzato il vostro sistema secondo i canoni della vera libertà.”
Detto fatto: erano risaliti sulla loro nave e se erano andati. Urk si era sentito sollevato: quegli essere erano intelligenti, ma in fondo ai loro occhi c’era qualcosa che proprio non lo convinceva. E le loro teorie sociali erano ridicole.
Il suo sollievo però era durato ben poco, perché già il giorno seguente cominciava a diffondersi per tutto il pianeta la notizia dell’invasione aliena: centinaia di astronavi venivano da Skirt, non tentavano in alcun modo di comunicare, e quando arrivavano distruggevano tutto quello che trovavano. La casa di Urk era crollata, e sotto le macerie erano rimaste sua moglie e sua figlia. Urk, inebetito dal dolore e dallo stupore, era rimasto per giorni e giorni seduto su quel che rimaneva della soglia di casa sua, senza più riuscire a muoversi. Lo avevano tirato via di lì, a forza, le squadre del mutuo soccorso.
Pian piano si era ripreso, Urk, ma non era mai riuscito a dimenticare. Con lui, tutta la popolazione di Sera era cambiata. Non c’era più quella dolcezza, quella urbanità che aveva sempre contraddistinto gli abitanti del pianeta, e soprattutto non c’era più la fiducia, piena, totale, che nei tempi andati ognuno aveva di tutti gli altri.
Non solo: da quando gli alieni erano venuti, qualche abitante di Sera aveva cominciato a non osservare più tutto quello che c’era scritto nel Libro delle Leggi. Questo aveva reso inefficiente il meccanismo autoregolatorio che in passato aveva funzionato così bene, ed aveva resa necessaria l’istituzione di organi che prima non esistevano, per la prevenzione e la soppressione delle inosservanze delle regole.
Insomma, questa pretesa di portare la “libertà” in un pianeta dove tutti gli abitanti erano già del tutto liberi era stata una catastrofe, e, quel che più conta, una catastrofe irreversibile.
Lo stesso Urk, nel corso degli anni, aveva concepito uno strano progetto. All’inizio gli era sembrata un’idea sciocca, ma continuando a pensarci gli era sembrato sempre più fattibile, e a un certo punto aveva cominciato a lavorare per metterlo in pratica. Nessuno ne sapeva niente, anche perché Urk viveva isolato, non vedeva quasi mai nessuno e aveva capito che comunque di un progetto così folle non si potevano mettere a parte neppure gli amici più stretti.
Non c’era vera cattiveria, in questo progetto di Urk, ma il desiderio, prepotente come la follia che ormai gli attanagliava il cervello, di far capire a chi gli aveva distrutto la vita il male che gli avevano fatto, e quanto futili, inutili e pretestuose fossero le loro ragioni.
E ormai era venuto il gran giorno. Tutto era pronto. Urk si alzò, faticosamente, e dopo un’ultima occhiata alle figure olografiche che ancora si muovevano nel soggiorno, con gli occhi gonfi di lacrime, premette un bottone nella parete. Un pannello si mosse, rivelando una specie di stanza segreta, piena di strani apparecchi.
Ecco, quelle erano le macchine a cui Urk aveva lavorato per tanti anni, con meticolosa pazienza. Con quelle macchine Urk, aveva imparato a spedire sottili onde psichiche agli abitanti di Skirt.
E queste onde penetravano nel cervello, e quando erano modulate in maniera opportuna condizionavano, addirittura alteravano il pensiero di coloro a cui erano dirette.
Per anni Urk aveva provato e riprovato, fino ad ottenere risultati in cui nessuno avrebbe mai osato sperare: aveva selezionato i soggetti più adatti, quelli che per la loro povertà, per la storia di sfruttamenti della loro gente e per le convinzioni che erano state loro inculcate sarebbero stati capaci di fare qualunque cosa, e tenacemente, pazientemente li aveva ridotti completamente al suo servizio.
Ormai era pronto: la lezione che avrebbe inflitto alla gente di Skirt non sarebbe mai stata dimenticata.
Urk sospirò ancora una volta, inserì una memoria criomagnetica nei suoi apparecchi e premette un pulsante. E su Skirt i suoi servitori videro, con un’intensità che non poteva essere attenuata, l’immagine di due grandi torri quadrate, e di loro stessi che, alla guida di veicoli volanti, vi si lanciavano contro.
Era l’11 settembre 2001.
20 dicembre 2004
Macchina fotografica
L'amore della mia vita mi ha regalato una macchina fotografica nuova. È così bella e sofisticata che fa persino le fotografie. Preparatevi.
(Questo suona tanto Marcello Marchesi, e me ne dispiace perché credo che sia uno degli umoristi più stupidi e qualunquisti che siano mai esistiti.)
17 dicembre 2004
Racconti dal treno: Troviamo Denise
Troviamo Denise. Salgo sul treno, come quasi ogni giorno da tanti anni, e nel vagone semideserto trovo il solito posto, quello che l’esperienza mi ha insegnato essere il migliore, il più riparato dalle correnti d’aria, il meno disturbato da quelli che passano. Ma oggi c’è qualcosa di diverso. Non capisco cosa sia, ma c’è. Eppure… Troviamo Denise. Davanti a me, sull’altra fila di poltrone, un passeggero dorme. Ha in braccio una borsa di pelle. Sopra la borsa, un fascio di carte. Noiose, immagino, visto che si è addormentato. Profondamente, con la bocca aperta. Troviamo Denise. In mano tiene il biglietto – forse non sa che il controllore, con una certa qual malignità, sveglia sempre tutti quando vuol vedere i biglietti, anche quelli che ne hanno uno che non deve esssere forato. E in mano tiene anche, ben più strano a vedersi, una lente di ingrandimento. Non è la lente però che mi dà questa sensazione di stranezza: un ipovedente merita comprensione, non meraviglia.
Troviamo Denise. Continuo a guardarmi intorno. Troviamo Denise. Passa una ragazza mangiando una mela. Nulla di strano. Delle valigie sulla reticella, in fondo al vagone. Del tutto normali. Troviamo Denise.
Ecco cosa c’è! Dalla reticella pendono i soliti cartoncini pubblicitari. Da qui ne vedo sei: tutti della stessa grandezza, tutti blu con le scritte in giallo. Forse ho guardato distrattamente i più vicini a me: sono la réclame di una di quelle truffaldine società finanziarie che vogliono estorcere soldi a chi di soldi non ne ha. Ma gli altri quattro sono diversi.
Portano due fotografie di una bambina, carina, la scritta “troviamo Denise” che avevo percepito in modo subliminale, e un numero di telefono. C’è scritto anche qualcos’altro, ma in piccolo, e da qui non riesco a leggerlo. Dai giornali so qualcosa di questa bambina che è scomparsa, ma non me ne sono mai preoccupato più di tanto.
E adesso, improvvisamente, con una brutalità che mi colpisce molto di più di quanto mi sarei mai aspetttato, ecco che il dramma di questi genitori mi arriva addosso con tutta la forza della loro disperazione: hanno riempito un treno, un treno che viaggia su e giù per tutta l’Italia, con manifesti che probabilmente non serviranno a nulla, se non forse a dar loro qualche fugace illusione stimolando la fantasia malata di qualche mitomane, o più semplicemente la buona volontà di qualcuno che poi si scuserà dicendo che credeva, ma sì, però probabilmente si è sbagliato… no, non era quella, le assomigliava soltanto. Mah, almeno spero che sia così.
Tutto questo, mentre per quel poco che ho capito probabilmente chi sa qualcosa è proprio vicino a loro, forse così vicino che è addirittura impossibile distinguere fra chi cerca e chi è cercato. Non sono colpevolista, per carità, lascio solo aperta la porta a tutte le ipotesi, perché tante cose sono così impossibili da essere vere… Ma intanto Denise non c’è, e probabilmente non è neanche più viva. Ormai è passato troppo tempo. E subito il dramma dei genitori mi appare meno importante. Forse non esiste neanche. Ma quello di Denise, quello sì che esiste.
Qualcuno sa qualcosa.
Qualcuno non dice quello che sa perché non gli conviene. O perché ha paura. O solo perché non sa che ciò che sa potrebbe servire a qualcun altro. Io? Mi interrogo, penso e ripenso, ma no, io quella bambina non la ho mai vista. Almeno per una delle cose brutte che succedono nel mondo non mi sento colpevole. Eppure la sensazione sgradevole rimane. Voglio leggere le scritte piccole che da qui non vedo bene. Forse riusciranno a spiegarmi qualcos’altro. Però c’è gente, disturberei qualcuno. Lo farò quando sarà ora di scendere dal treno, che tanto per cambiare è in ritardo. Intanto continuo a pensare. Mi è venuto il mal di testa, a furia di rimuginare su questo “troviamo Denise.”
Lo scambio di Pioltello. Ancora sette minuti e ci siamo. Poi saprò cosa c’è scritto in caratteri piccoli. Ma intanto… dunque, l’informazione c’è. Da qualche parte nel mondo qualcuno sa qualcosa. Probabilmente c’è anche qualche macchina che sa, qualche centralino telefonico, qualche gateway dell’internet, qualche registratore… ma le macchine sono stupide, le macchine non capiscono il bene e il male, e sono state costruite per stare zitte. D’altra parte, se parlassero, dovrebbero dire tutto quello che sanno, e non si finirebbe più.
Quindi restano solo gli uomini. Gli animali, quelli, non sanno parlare…
Il treno rallenta. Mi alzo. Mi avvicino ad uno dei cartelli. Non capisco. Ci sono alcune informazioni in più, e poi un indirizzo internet e un numero di conto corrente. Un conto corrente?
Il treno si ferma. Scendo, prendo la bicicletta. Intanto rimugino. Un conto corrente? E per fare che? Sulla locandina in treno non mi pare che ci fosse scritto Arrivo a casa e riaccendo il calcolatore. Vado su quel sito internet, e trovo una pagina con più o meno le stesse informazioni. Del conto corrente però non c’è traccia. C’è solo sulla locandina che ho visto in treno, e che viene offerta anche dal sito internet come opzione da scaricare.
Non capisco… forse avrei dovuto leggere meglio i giornali, ma si fa presto a rimediare: tutta questa tecnologia servirà bene a qualcosa, no? Interrogo i motori di ricerca. Trovo valanghe di materiale, ma dei soldi si dice poco… forse servono per comprare quelle informazioni, forse per costituire un riscatto da offrire. E pare che ci sia già qualcuno che ha offerto un sacco di soldi ma non si sa chi sia, e i verbali di interrogatorio dei genitori sono secretati, e hanno sequestrato tutte le macchine dei parenti, e forse c’entra la mafia, forse è un’intimidazione. Hanno tagliato le gomme della macchina della mamma. Hanno incendiato il negozio della zia. E nessuno ne sa niente. Nessuno. quelli che non sanno vorrebbero aiutare. Quelli che sanno non vogliono. Qualcuno cerca di approfittarsene. Chissà chi è. L’unica cosa che mi resta sono gli occhioni di questa bambina di quattro anni che mi guarda da quattro fotografie. Troviamo Denise.
Sì, troviamola.
15 dicembre 2004
Racconti dal treno
Siccome sono un pendolare, molti degli appunti che appariranno qui derivano da cose successe in treno. Di tutti i generi, ma, temo, spesso legate a disservizi di tutti i generi. Tanto per fare un esempio, questa mattina, a Lambrate, mentre aspettavo un treno (in ritardo, tanto per cambiare), l’altoparlante ha avuto la spudoratezza di annunciare che un convoglio locale tardava “causa forte affluenza di passeggeri”. In altre parole, cari utenti, se i nostri treni non vanno in orario, la colpa è solo ed esclusivamente vostra, e della vostra assurda pretesa di viaggiarci sopra.